“In Italia oggi non si può parlare di cibo senza parlare di mafia. Che non è l’immagine cinematografica e melodrammatica de Il Padrino, ma è fatta di imprenditori, commercialisti, manager d’impresa, notai, politici, medici e amministratori statali. È una mafia imprenditoriale”.
È con queste parole che Luca Ponzi – giornalista Rai e coautore del libro Cibo Criminale – apre l’incontro La filiera della Legalità, organizzato e promosso da CIR food con il patrocinio dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.
Il crimine agroalimentare, in confronto al traffico d’armi e di droga che sono tra i più redditizi, permette di guadagnare le stesse cifre (15 miliardi di Euro il fatturato dell’agromafia in Italia) con un rischio spesso riconducibile a semplici sanzioni amministrative.
Dalla tavola rotonda emerge, non inaspettatamente, un quadro inquietante e complesso, talora “demoralizzante”, come sostiene Chiara Nasi, Presidente di CIR food, che riconosce l’illegalità anche a vari livelli del mercato in cui opera la ristorazione collettiva: la vede nelle procedure delle gare d’appalto, nell’evasione fiscale, nella frode alimentare, nelle barriere all’ingresso in determinate zone d’Italia, nella mancanza di controlli, nel lavoro nero… “Talvolta nelle richieste dei servizi di ristorazione, che hanno peraltro una funzione sociale e di welfare poichè rivolti a bambini, degenti e anziani, si trovano dinamiche che facilitano l’infiltrazione malavitosa. Noi temiamo chi non rispetta le leggi e distrugge le regole del mercato, – conclude Nasi – non la concorrenza tra imprese virtuose e qualificate che meritano invece di essere valorizzate e premiate”.
Tuttavia una via d’uscita esiste, nella misura in cui si riesca a “rendere realmente applicabili le norme e ad attuare un cambiamento culturale, sia a livello di operatori, che di legislatori e controllori.”
Ed è proprio di leggi che abbiano “gambe sulle quali camminare” che parla il giudice Gian Carlo Caselli – che ha presentato al Ministero della Giustizia il progetto di riforma di legge in materia agroalimentare – ovvero “il problema non è solo elaborare delle buone norme, ma anche farle applicare con i controlli, con il processo e con una cultura della legalità degna di questo nome”.
Il sistema mafia e la sua contrapposizione
Elevati guadagni e rischio bassissimo: sono questi i due fattori che concorrono a far si che tutti i livelli della filiera agroalimentare siano penetrati da quella che il giudice Gian Carlo Caselli definisce Mafia Liquida, perché “come l’acqua, tende a inserirsi, penetrare, infilarsi dappertutto”.
E Libera Terra Mediterranea, rappresentata da Alessandro Leo che ne è Presidente, è la più sofisticata e articolata espressione di antimafia sociale: i prodotti delle cooperative di giovani che sotto Libera lavorano le terre confiscate ai mafiosi, sono la materializzazione della legalità che paga, che offre opportunità imprenditoriali libere. E sono espressione di un sistema che non cura solo la terra ma anche i diritti, attraverso un’economia fondata sul rispetto dei lavoratori e dell’ambiente, che coltiva e produce eccellenze che sono anche testimonianza di un cambiamento di valori di quella comunità. “Se la mafia è liquida e si insinua, per farla retrocedere dobbiamo occupare quegli spazi in cui si infiltra con una parte di comunità sana che fa proposte e azioni”.
È sul concetto di valore del cibo che Silvio Barbero – Vicepresidente Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo – invita a riflettere: sulla trasparenza, sulla legalità, sul rispetto di chi, quel prodotto, lo realizza. Produttori, distributori e trasformatori devono muoversi nella direzione di comportamenti etici e codici di autodisciplina che, insieme a un buon sistema normativo attivo, trasformino il concetto di libero mercato in mercato libero. Ovvero: chi non rispetta le regole esce dal sistema. Il consumatore deve essere formato, educato e messo nelle condizioni di decidere se acquistare o meno ciò che può essere il risultato dello sfruttamento indiscriminato delle persone e del territorio.
Una filiera che si basa sull’attività di ricerca, soprattutto sul tema ambientale, non può non fare i conti con le regole mafiose: Andrea di Stefano – Responsabile relazioni istituzionali Novamont – spiega il legame tra chi produce materie bioplastiche (ad esempio le buste biodegradabili) e il tema della legalità, raccontando di quelle “leggi” imposte da chi detiene il potere su specifici territori e non ha alcun interesse economico, tanto meno sociale, a inserire prodotti e a favorire tutte quelle attività e pratiche che tutelano le persone e rispettano l’ambiente.
L’humus dell’illegalità
220 miliardi di euro rappresentano il fatturato delle varie mafie in Italia. 220 miliardi di euro che devono essere riportati nel mondo della legalità. Per una serie di caratteristiche “strutturali”, il settore agroalimentare si presta favorevolmente a questa operazione di “infiltrazione mafiosa”: è infatti costituito da piccole-medie aziende, spesso a conduzione familiare e quindi più facilmente aggredibili e ricattabili. E’ fatto di consumo quotidiano: per mangiare tutti i giorni siamo abituati a pagare in contanti e questo velocizza la circolazione e quindi il riciclaggio del denaro.
La mafia è attiva anche nella ristorazione: nel rapporto Coldiretti si parla di migliaia di imprese in Italia, tra bar e ristoranti, direttamente riconducibili a personaggi legati al mondo della criminalità organizzata.
Il caporalato è il primo step dell’ingresso della criminalità organizzata nell’agroalimentare ed è anche propedeutico alle successive contaminazioni del cibo: chi è “schiavo” non controlla il proprio lavoro, fa uso di qualsiasi tipo di diserbante, di veleno. Non è dunque solo una questione etica di sfruttamento e di tutela dei diritti di quelli che, secondo CGIL , sono i circa 50.000 schiavi dei campi italiani, ma è anche una questione di tutela dell’ambiente e della qualità di ciò che mangiamo.
La proposta di legge a “misura del consumatore”
Il 14 Ottobre Gian Carlo Caselli ha presentato in Parlamento la nuova proposta di legge, un progetto di riforma della normativa in materia agroalimentare. Le linee guida sono una lunga e articolata relazione per spiegare lungo quali binari si è mossa la commissione.
Se le novità sono tante – ad esempio sono identificati nuovi reati come quelli di disastro sanitario, o di omesso ritiro di prodotti pericolosi inseriti nel ciclo della filiera, di agropirateria, ecc…- la vera innovazione sta in una normativa imperniata sulla figura del consumatore finale. La frode va sanzionata in quanto lesiva soprattutto degli interessi del destinatario ultimo del prodotto, tenendo anche conto del maggior valore che ha progressivamente assunto l’identità del cibo, della cultura dei territori, delle comunità locali. Ed è sempre pensando al consumatore, che la proposta propone un’etichetta narrante, comprensibile e trasparente, che faccia realmente comprendere cosa c’è dietro il prodotto e quale sia il suo valore, non solo in termini di princìpi nutritivi, ma di princìpi etici e sociali.
“Se la nuova proposta di legge ci lascia dunque una speranza nella direzione di una filiera agroalimentare pulita e sanamente competitiva, conclude il giudice Gian Carlo Caselli – il cambiamento culturale necessario resta uno scenario aperto sulla coscienza collettiva e dei singoli.”