Cos’ è che ci fa innamorare di un ristorante?
È una domanda che pochi giorni fa ponevo a me stesso e ai nostri lettori in un articolo che ha innescato un piccolo dibattito sui fattori, più o meno razionali, che spingono a preferire un locale piuttosto che un altro.
La risposta della vivace comunità de Il Giornale del Cibo non si è fatta attendere, e qualcuno è subito intervenuto a sciogliere questo mistero, lasciando dei costruttivi commenti sulla nostra pagina facebook.
Si è così giunti alla conclusione che gli elementi che predispongono all’innamoramento sono oggettivi (qualità del cibo, prezzo, ambiente e ascelle che non puzzano, per citare l’ironico intervento di un lettore) e ben identificabili.
A fare il resto, poi, è il gusto soggettivo, sulla base di suggestioni personali e considerazioni come: quel locale mi ricorda qualcosa di famigliare e quell’altro no. Che è un po’ come dire: quegli occhi sono belli come altri ma hanno una sfumatura di colore che mi ricorda il primo amore e finisco sempre per innamorarmi di chi ha quel colore nello sguardo.
Mistero risolto dunque?
Ciò che sfugge all’analisi oggettiva
Molte delle osservazioni dei nostri lettori mi trovano asolutamente d’accordo, ma mi portano a rivedere la questione sulla base della mia esperienza personale.
Ho coordinato direttamente l’apertura e l’avviamento di almeno 50 pubblici esercizi di ogni tipo, in Italia e all’ estero, dall’ America al Vietnam passando per l’Europa, la Turchia, la Cina. Tra successi e fallimenti.
Usavamo, scelta una location adeguata, un quadrante di una trentina di elementi, per la progettazione. Dalla comodità delle sedute ai colori delle pareti, per non dire del menù e dei prezzi. Poi, dopo tutto questo sforzo scientifico, l’analisi del successo o dell’insuccesso finiva sempre per addentrarsi in qualcosa di più irrazionale. O meglio: in dettagli (il diavolo, si sa, sta nei dettagli!) difficili da governare, capire, individuare.
Il ristorante come scena pubblica
Il ristorante è visto da Joanne Finkelstein come un diorama del desiderio (il diorama, dice Umberto Eco, mira a rappresentare un surrogato della realtà, anzi qualcosa di persino più reale) ed è una scena pubblica della quale abbiamo bisogno per mostrarci.
Mi chiedo allora se non sia per questo che è così difficile, complesso, a volte non razionale progettare e gestire un esercizio come questo.
La pratica del mangiar fuori è una forma di socialità prima che una necessità o un piacere legato al cibo. Ci piace invitare gli amici a cena in casa nostra, ma spesso preferiamo uscire e non solo perché è più comodo, non dobbiamo cucinare e lavare i piatti, ma proprio perché – come dicevo – più o meno consapevolmente abbiamo bisogno di una scena pubblica, di guardare e di essere guardati. E questo offre un piacere sottile che va oltre il gusto di ciò che stiamo masticando.
Voi cosa ne pensate?