Giusto un anno fa, sul Giornale del Cibo mi interrogavo sul mistero che abita i ristoranti, i bar, i caffè, le osterie e via via tutti i pubblici esercizi.
In alcuni si sta bene – indipendentemente dal livello del locale, che sia di lusso o popolare… – altri invece non riescono a far innamorare i loro clienti.
Parlo di mistero perché non sono sempre parametri oggettivi e misurabili a determinare l’innamoramento: a volte il cibo, il prezzo, la velocità del servizio, l’ambiente si impastano alla perfezione e la grazia scende a benedire il locale. Altre volte, invece, una sorta di peccato originale decreta invece la dannazione eterna del pubblico esercizio, nonostante gli ingredienti della sua progettazione e gestione sembrino tutti di grande qualità.
Come le case dei nostri amici. Un architetto di grido non ha trascurato alcun particolare ma nella casa di Mario ci sentiamo a disagio, mentre nel salotto meno curato e più disordinato di Giovanni stiamo bene. E’ più vissuto, più sincero.
Far bene da mangiare è allora necessario ma non sufficiente per un ristorante. Esso deve trasmettere un non so che per entrare nei cuori. Quale sia questo non so che è difficile dirlo. E’, appunto, una questione d’amore.