Si discute da tempo di spaghetti alla bolognese, celeberrimi nel mondo, mentre la città di cui portano il nome si divide tra chi ne contesta l’esistenza e chi invece vorrebbe restituirgli dignità e valorizzarli, o perlomeno accettarli. Anche tra questo secondo gruppo, però, al momento non c’è un’idea comune e condivisa sulle origini storiche e sul percorso che ha portato a farli conoscere a livello globale. Nel recente libro Bologna, l’Italia in tavola, lo storico Massimo Montanari afferma una versione dei fatti interessante, che riporta alla fine del XIX secolo. Ma quando e come nascono gli spaghetti alla bolognese? Erano già popolari nel Cinquecento, come ritiene qualcuno, o si tratta in un’invenzione di fine Ottocento, resa nota dalla cucina italo-americana? E ha senso avere un approccio assolutistico e inflessibile quando si parla di ricette tradizionali?
In questo quarto capitolo speciale della nostra saga sul più divisivo tra i primi di pastasciutta abbiamo coinvolto Luca Cesari, storico dell’alimentazione, cuoco e appassionato di gastronomia, che nel suo libro Storia della pasta in dieci piatti, sulla base di una precisa documentazione, ha approfondito le origini di alcuni dei cult della cucina italiana.
Spaghetti alla bolognese: da quanto esistono?
Il primo aspetto controverso sugli spaghetti alla bolognese riguarda le loro origini, sia riferendosi all’epoca storica che al contesto sociale e geografico. In merito a questo, Luca Cesari esclude alcune ipotesi avanzate in anni recenti, perché “come afferma Giancarlo Roversi (giornalista e scrittore bolognese, ndr), è vero che nella seconda metà del Cinquecento il Senato bolognese accolse la richiesta di avviare una sorta di pastificio ante litteram, destinato alla produzione di paste secche di grano duro. In quel periodo, le paste secche – in genere di origine genovese e che avevano il vantaggio di potersi conservare nel tempo – venivano prodotte in molte città, tra le quali sicuramente anche Bologna. Tuttavia, partendo da questo, non è condivisibile l’idea di far risalire a quel periodo la genesi degli spaghetti alla bolognese, tanto che nessuna fonte o trattato li menziona. È da escludere anche che nelle campagne bolognesi in quell’epoca si usassero vermicelli con ragù o sughi di carne similari, perché la concezione di questo condimento come lo intendiamo noi, associato alla pasta e con pezzetti di carne, è un’invenzione della metà dell’Ottocento”.
Il cuoco ottocentesco Giovanni Vialardi – prosegue Cesari – parla dei sughi alla sarda e di maccheroni alla familiare, modi per arricchire la pasta, ma “all’epoca non c’era ancora l’idea di primo piatto come intendiamo oggi. Con il ragù alla napoletana, ad esempio, si aveva una portata principale di carne, poi con il sugo venivano conditi i maccheroni. Ma l’idea di arricchire il primo di pasta, dandogli un ruolo centrale all’interno del pasto, è una rivoluzione che viene dal Meridione a partire dalla metà dell’Ottocento, prima di allora questo non si concepisce. Nel 1803, ad esempio, il cuoco Vincenzo Agnoletti nel suo trattato Nuova cucina economica descrive i maccheroni all’italiana, che si possono condire in tre modi: sugo di carne, besciamella o panna, oppure burro e parmigiano. In ogni caso la quantità di pasta che si mangiava all’epoca era enormemente inferiore rispetto a oggi, si trattava di una cucina completamente diversa che si basava più sulle zuppe che sulla pastasciutta. La pasta era consumata in brodo o al forno, ma la pastasciutta al piatto come la conosciamo oggi si è diffusa veramente nel secondo dopoguerra”.
In realtà, aggiunge l’intervistato, “dal Settecento era già noto uno stile ‘alla bolognese’, ma per altre produzioni note con questo appellativo, come i salsiccioni, le olive e la cotognata. Ma sicuramente non gli spaghetti, e nemmeno il ragù, che si afferma successivamente”.
I maccheroni dell’Artusi e il condimento ‘alla bolognese’
Seguendo la ricostruzione di Cesari, “Pellegrino Artusi ha avuto un ruolo determinante, perché nella sua prima edizione del 1891 de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene pubblica la ricetta dei ‘maccheroni alla bolognese’, pur senza nominare il ragù. Oltre ad avere un nome di origine francese (ragoût), all’epoca questo condimento era ancora un oggetto strano e non precisamente definito. Vi si faceva riferimento intendendo anche una sorta di spezzatino, che poteva essere vegetale o di carne, e da poco stava cominciando a essere accostato alla pasta”.
I maccheroni alla bolognese dell’Artusi, prosegue l’intervistato, “sono conditi con un ragù bianco a base di vitello tirato con il brodo, con pancetta di maiale, sedano, carote e cipolla. La carne di maiale, quindi, è presente solo come pancetta: entrerà successivamente anche quella fresca, nel 1927 con il manuale di cucina Il Talismano della felicità di Ada Boni. Anche il ragù alla napoletana prevede manzo e vitello, con la cottura prolungata di un unico pezzo di carne: il sugo si usa poi per condire la pasta, mentre la carne si serve come secondo. I bolognesi, invece, preparano un ragù nel quale la carne condisce direttamente la pasta, una rivoluzione avviata appunto a metà dell’Ottocento”.
Il grande successo dell’opera di Artusi, secondo Cesari, “porta popolarità anche al condimento definito ‘alla bolognese’, che comincia a diffondersi con questa espressione. La città delle due torri si è sempre distinta per le tagliatelle di sfoglia all’uovo, tuttora preferite, ma la pasta secca non è mai mancata. L’ottima ricetta dell’Artusi, infatti, prevede i maccheroni, in particolare i denti di cavallo, un formato oggi scomparso, ma specifica che anche le tagliatelle verdi sono adatte all’abbinamento. Quelle gialle, invece, sono proposte con il prosciutto e alla rustica (sugo con aglio, prezzemolo e pomodoro)”.
‘Alla bolognese’, ma con gli spinaci…
Prima dell’Artusi, però, è esistito un altro condimento alla bolognese, di fatto cancellato dall’affermazione internazionale del ricettario del grande gastronomo romagnolo. Cesari puntualizza che “nel 1851 in Italia viene pubblicato il Cuciniere italiano moderno, di autore anonimo, dove si presentano delle lasagne alla bolognese. Si tratta di una versione antesignana e ancora lontana da quella che apprezziamo oggi, perché prevede pasta gialla e una farcitura degli strati con un condimento di spinaci lessati, tritati e ripassati in padella con sugo di carne. Questo stile alla bolognese, ripreso da un ricettario ottocentesco privato, sbarca negli Stati Uniti. È interessante notare che nel 1896 un ricettario scritto da Oscar Tschirky, maître del ristorante Delmonico’s e successivamente del Waldorf-Astoria Hotel di Manhattan, presenta i ‘macaroni bolognese style’, una pasta al forno condita a strati proprio con spinaci tirati al sugo di carne e parmigiano; nel 1908 un’altra pubblicazione dedicata agli hotel di Chicago propone lo stesso piatto. In sostanza, oltreoceano era evidente una sorta di ritardo rispetto alla versione dell’Artusi, ma si trattava comunque di una vera ricetta bolognese, che allora aveva più di mezzo secolo e si era diffusa con un certo successo. Solo pochi anni dopo, però, sarebbe stata soppiantata dal ragù in una versione più simile a quella attuale, ma le moderne lasagne verdi ne avrebbero assorbito la caratteristica fondamentale: gli spinaci passano così dalla farcitura alla pasta”.
Gli “spaghetti di Napoli alla bolognese” e la diffusione negli USA
Nella storia documentata degli spaghetti alla bolognese, un altro passaggio decisivo è stato ricostruito nel 2015 grazie a una pubblicità sulla carta stampata. Come attesta una ricerca dell’Università di Bologna curata da Patrizia Battilani e Giuliana Bertagnoni, pubblicata dallo storico dell’alimentazione Massimo Montanari nel suo libro Bologna, l’Italia in tavola (2021), Cesari precisa che “nel 1898 all’Hotel Ville et Bologne di Torino si servivano gli ‘spaghetti di Napoli alla bolognese’. Il piatto, pubblicizzato con questo nome sul quotidiano La Stampa, guadagnò ulteriore notorietà, e venne ripreso da numerosi italiani emigrati all’estero”.
In questo ulteriore punto di svolta, per l’intervistato fu determinante un’iniziativa di beneficenza organizzata negli Stati Uniti da Julia Lovejoy Cuniberti, che nel 1917 pubblicò il suo ricettario Practical Italian recipes for American kitchens, al fine di sostenere economicamente le famiglie dei soldati italiani che combattevano nella Prima guerra mondiale. “Nella pubblicazione, che riprende e traduce alcune ricette artusiane, si consiglia di usare il condimento Bolognese sauce per macaroni or spaghetti: non sono invece citate le tagliatelle, formato che negli USA non si è mai diffuso, per limiti di fragilità, conservazione e trasporto, ma anche per la difficoltà di realizzarle manualmente. Anche in Italia, peraltro, nelle guide Touring negli anni Trenta per spiegare agli americani cosa si mangia in Italia e a Bologna si descrivono le tagliatelle mostrando gli spaghetti, per raffigurare un formato già ben conosciuto oltreoceano. Quindi, per il mercato statunitense, tagliatelle e spaghetti sono sempre stati intercambiabili, quasi come due sinonimi, aspetto notoriamente aborrito dai bolognesi”.
Il mito americano degli spaghetti alla bolognese: il ruolo decisivo dell’emigrazione nella storia della gastronomia
Nella genesi e nell’affermazione di questo piatto nel mondo l’emigrazione ha giocato un ruolo decisivo, quando tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento il trasferimento di milioni di persone ha significato anche il passaggio di un grande patrimonio di tradizioni. “L’idea di ragù di Artusi è stata esportata negli Stati Uniti, dove sono state recepite anche le evoluzioni successive, fermandosi però all’uso degli spaghetti. Ciò è anche dovuto alla forte presenza di migranti meridionale, che hanno portato con sé la tradizione della pasta secca di grano duro. Su questi presupposti è nato veramente il mito americano degli spaghetti alla bolognese, perché prima di allora questo piatto non esisteva”.
Inoltre, secondo Cesari, lo stesso modo di cucinare e mangiare che troviamo fuori dall’Italia potrebbe dipendere da abitudini legate a un passato di emigrazione. “Quando all’estero si mangia la pasta scotta, ad esempio, è riduttivo pensare che sia dovuto a un’incapacità di cucinarla. In Italia, nella seconda metà del Novecento, si è compiuta un’evoluzione che prevedeva una pasta sempre al dente, ma all’estero è stato diverso, non a caso la cucina italo-americana non è la cucina italiana in America, ma è proprio diversa. Negli Stati Uniti si è mantenuta l’idea di pasta più morbida che noi abbiamo superato, quindi mangiarla all’estero è un po’ come fare un salto nel tempo, perché lì si cucina come le consuetudini familiari hanno tramandato. In un certo senso è più autenticamente italiana quella cucina rispetto alla nostra”.
Per spiegare meglio questo aspetto, Cesari cita il caso del Parmesan del Wisconsin, che abbiamo approfondito anche nella nostra intervista ad Alberto Grandi, autore di Denominazione di origine inventata. “Oggi quel formaggio presenta caratteristiche più simili al Parmigiano-Reggiano del secolo scorso, quando le forme erano più piccole (al massimo 30 chili) e all’esterno venivano tinte di nero. Le vecchie foto della lavorazione delle forme prodotte nel territorio d’origine, prima del 1960, testimoniano questa correlazione. Gli emigrati emiliani dei primi del Novecento, infatti, hanno ricreato negli USA la modalità produttiva del passato, senza seguire le evoluzioni occorse successivamente. Nel Wisconsin non sono stati recepiti i criteri più recenti, fissati dal disciplinare, e si è continuato con i vecchi metodi. Anche lì sicuramente si è verificata un’evoluzione in senso industriale, ma almeno nell’aspetto le forme di oggi continuano ad assomigliare di più al parmigiano del passato, rispetto a quello che mangiamo noi”.
Gli spaghetti alla bolognese esistono, ma a distinguere Bologna sono le tagliatelle
Per Luca Cesari, quindi, “anche se gli spaghetti alla bolognese al ragù in genere non sono apprezzato dai bolognesi – che raramente li mangiano – non ha senso negarli o bandirli. Tradizione o invenzione, ad ogni modo, anche se nel mondo si conoscono solo gli spaghetti alla bolognese, la vera cifra identitaria di Bologna non è certamente la pasta secca e nemmeno il ragù, perché avendo la ricetta e dei buoni ingredienti lo si può riprodurre ovunque. Invece, tirare le tagliatella al mattarello è ben più difficile, e proprio in quel saper fare si esprime la ‘bolognesità’”.
Gli spaghetti alla bolognese sono al tonno?
Nella storia degli spaghetti alla bolognese e della loro origine, il riconoscimento di un’altra versione – nettamente diversa – ha riacceso il dibattito, come abbiamo visto in un nostro precedente approfondimento. Nel dicembre 2018, infatti, la ricetta al tonno è stata registrata presso la Camera di Commercio di Bologna. Ma, secondo Cesari, “non risalgono alla metà dell’Ottocento, come invece afferma Roversi. Nel 1837 Ippolito Cavalcanti – cuoco napoletano vissuto in quell’epoca ed esponente di punta della rivoluzione meridionale della pasta che si è diffusa in tutto lo Stivale – parla per primo di spaghetti al pomodoro come li intendiamo noi. Prima, la pasta al pomodoro era con il ragù alla napoletana, mentre le paste fini di Puglia si usavano all’interno di un brodo colorato con il pomodoro, una sorta di zuppa in cui si metteva la pasta anziché il riso. Citano queste preparazioni sia il cuoco Francesco Leonardi nel 1790 che l’Agnoletti nel 1803. Eccetto questo, il contributo rivoluzionario lo dà appunto Cavalcanti, che oltre a quelli al pomodoro descrive anche gli spaghetti alle vongole. Di spaghetti al tonno, invece non parla nessuno, si tratta di un’invenzione molto più recente”.
Almeno fino alla metà del Novecento, per motivi religiosi, nei giorni di magro era molto praticata la consuetudine di non mangiare carne, e tutte le pastasciutte che non la contenevano erano diffuse. “I tortelloni di ricotta, ad esempio, erano appunto tipici della Vigilia, e analogamente gli spaghetti al tonno erano il classico primo della Quaresima, lo stesso Cavalcanti propone gli spaghetti al pomodoro o alle vongole come alternativa per i giorni di magro. È vero che il tonno in scatola comincia a diffondersi a metà dell’Ottocento: il metodo Appert nei vasi di vetro viene presentato nel 1810, poi gli inglesi poco dopo iniziano a usare le lattine di stagno. Prima, il pesce sotto sale, olio o salamoia veniva venduto in grossi tini specialmente quando non si poteva mangiare carne, e le specie diffuse per questa conservazione erano altre (aringhe, acciughe, sarde, baccalà, stoccafisso, ecc.). Questi piccoli pesci sono sempre stati colonne portanti per i giorni di magro, ma il tonno arrivò molto dopo, e gli spaghetti con questo condimento ancor più di recente. Nel ricettario di Ada Boni del 1927 sono descritti come specialità romana, mentre nel film Cameriera bella presenza offresi…, del 1951, c’è la prima citazione della carbonara, quando Aldo Fabrizi chiede ad Elsa Merlini se sa cucinarla. Ad ogni modo si tratta di una di quelle ricette che nel Novecento erano piuttosto popolari in Italia, e affermare che questi sono i veri spaghetti alla bolognese è quantomeno azzardato”.
Il ragù attuale e la versione con i piselli
Alla fine dell’Ottocento e gradualmente, il ragù alla bolognese ha acquisito i caratteri che conosciamo, e aggiunge Cesari: “verrà inserita una maggior quantità di maiale e soprattutto il pomodoro, che fino all’inizio del Novecento è assente. Rispetto alle possibili variazioni, l’Artusi già dice che si possono mettere funghi o panna, aggiunte mantenute anche da Ada Boni nel 1927 e che si sono sempre usate. Sui documenti che abbiamo, di quello coi piselli non si parla, ma nel passato recente si è sempre mangiata anche questa versione, che tra l’altro oggi è tra le più popolari e azzeccate in termini di abbinamento. In genere, quando il ragù avanzava lo si allungava con i piselli: si tratta di un uso consolidato, che probabilmente si è diffuso almeno dal secondo dopoguerra” e che attualmente è proposto, anche a Bologna, come condimento per gli spaghetti alla bolognese, anche per differenziarlo dal ragù tradizionale invece usato per le tagliatelle.
Piatti tradizionali e ricette depositate: è giusto fissare dei canoni?
Per venire a capo della discussione e dopo questo excursus, ecco il quesito fondamentale al quale occorre rispondere. Secondo Luca Cesari “questo approccio ha avuto senso in un certo momento storico. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta c’è stata una percezione corretta per un uso opportuno delle registrazioni: il mondo stava completamente cambiando, l’Italia era appena uscita dalla guerra e da nazione agricola si stava trasformando in potenza industriale. Il mondo rurale e contadino, con tutte le sue tradizioni, leggende, credenze e anche ricette, era considerato superato e destinato all’oblio. Alcuni grandi padri fondatori di questo movimento, come Luigi Veronelli, hanno compreso che tanti piatti e prodotti tipici italiani andavano mantenuti, iniziando un impegno per valorizzare alcuni capisaldi della gastronomia italiana. Molte cose, però, si sono perdute, soprattutto se pensiamo all’universo contadino, ed è successo perché si trattava di preparazioni davvero povere e poco adatte all’evoluzione che alimentazione stava vivendo”. Nella nostra intervista a Rita Monastero abbiamo parlato delle ricette dei piatti dimenticati della tradizione italiana.
Per salvare le ricette fondamentali, quindi, si stabiliscono ingredienti e procedure specifiche, aspetto necessario e inevitabile, perché questo sistema non può tener conto di tutte le possibili versioni. “Con questa logica, però, via via si consolida un atteggiamento rigido, secondo il quale una ricetta va fatta solo in un determinato modo. In questo senso, i casi bolognesi sono esemplari: l’Accademia della Cucina italiana di Bologna nel 1972 deposita la tagliatella, con tanto di campione d’oro con le dimensioni precise di riferimento, un’iniziativa che ha anche un tono goliardico e divertente. Poi nel ‘74 viene depositata la ricetta del ripieno dei tortellini, e nell’82 è il turno del ragù, ma si tratta di una preparazione molto legata agli anni Ottanta, tanto che riporta la panna, oggi considerata ingrediente deprecabile per eccellenza”.
In genere, aggiunge l’intervistato, “sono ricette datate e talvolta superate. Io ad esempio il ragù non lo preparo così: i tagli di carne che uso e il tipo di rosolatura delle carni e delle verdure sono diversi. Il ripieno del tortellino dagli anni Settanta è rimasto sostanzialmente quello, ma precedentemente, dal Cinquecento, si era sempre usato anche il petto di pollo o di cappone, poi a inserire i salumi è stato Artusi, che inoltre usava il midollo di manzo. Ad ogni modo, il ripieno di solo maiale è molto recente, della metà del Novecento. Con questa logica, quindi, si sono cristallizzati dei piatti, negando tutte le possibili varianti: una volta fissati i canoni sembra che non ci si possa muovere da lì. Sarebbe come pensare di bloccare la lingua italiana impedendone i cambiamenti, nella realtà l’evoluzione non si può negare limitandosi a rimpiangere il passato. È possibile e giusto avere alcuni punti fermi, accettando che in un dato momento degli esperti abbiano deciso che una ricetta si dovesse fare in un determinato modo – è successo nel 2015 con l’amatriciana, figuriamoci se non capitava negli anni Settanta – ma ricordiamoci che quelle depositate sono ricette fra tante altre, scelte tra decine di versioni”.
Storia della pasta in dieci piatti: le origini documentate, dal mito alla realtà
Nel suo ultimo libro, Storia della pasta in dieci piatti, Luca Cesari espone diffusamente le ricostruzioni e le riflessioni qui introdotte, ripercorrendo le origini di quel che mangiamo. “Al di là del mito e delle leggende, attraverso le fonti storiche ho cercato di ricostruire quella che potrebbe essere la vera storia. Uso il condizionale perché ovviamente sia i ricettari che le altre fonti non coprono tutto lo scibile, mi riferisco ad esempio all’alimentazione contadina e delle tradizioni rurali del Settecento e Ottocento, di cui si sa pochissimo. Chi scriveva di cucina, infatti, apparteneva e si rivolgeva a un ceto sociale alto. L’argomento è complesso, ma qualcosa si riesce comunque ad affermare, e soprattutto la base fondamentale è che la gastronomia italiana si è sempre distinta per una grande varietà, una delle ragioni principali alla base del suo apprezzamento nel mondo. Nel giro di poche decine di anni è riuscita a liberarsi dal giogo della cucina francese, qualificandosi come una delle cucine più amate al mondo, una rivoluzione enorme e senza eguali. Al di là di tutto, la gastronomia è in continua evoluzione, pertanto è sbagliato scandalizzarsi per le variazioni di un piatto tipico. Tutto questo è un bene, perché, come accade per la lingua, una cucina che non si evolve è destinata a tramontare. Personalmente, contesto l’ideologia del ‘si è sempre fatto così’: è giusto che emerga la vera storia dei piatti, sono convinto che la cucina italiana se lo meriti”.
Le ricostruzioni storiche e le riflessioni di Luca Cesari, in conclusione, invitano superare una visione della cucina basata su falsi miti, ma anche a uscire da una concezione troppo rigida delle specialità gastronomiche.
Avete mai mangiato gli spaghetti alla bolognese? Potete raccontarci esperienze vissute all’estero legate a questo piatto?