In Salento, il grico non lo parla quasi più nessuno. “E si è perso perché si è voluto perdere, perché per anni ha rappresentato qualcosa di arretrato, che si voleva superare” ci spiega Enrico Baldassarre, giovane musicista e linguista che abbiamo incontrato per approfondire questo tema. Ma per fortuna negli ultimi anni è nata una nuova consapevolezza, che ha portato all’unione di alcuni comuni, più o meno ellenofoni, in quella che oggi viene chiamata la “Grecia salentina”. Dunque oggi andiamo alla scoperta di questa particolare zona del Salento, della sua cucina e in particolare di una specialità, la scèblasti.
La terra a cavallo tra due mari: la Grecia salentina
Iniziamo con il chiarire che il termine “grico” è un’evoluzione linguistica, che corrisponde quasi totalmente al neogreco, cioè al greco moderno, con qualche contaminazione di greco antico e nel tempo anche di parole in dialetto salentino. Come vi avevamo già raccontato, è impossibile parlare di “un” Salento in generale, poiché in questa terra si intrecciano di continuo più radici e influenze, tanto nella cucina quanto nella lingua. Romane, bizantine, messapiche, greche. Per il l’etno-gastronomo Pino De Luca, basta guardare come sono disposti gli ulivi per capire di quale popolo si tratta in origine! Quel che è certo è che qui, fin dai tempi della Magna Grecia, i greci hanno lasciato una forte traccia: in passato, infatti, l’area ellenofona era molto più ampia, sia in Salento che in generale in Puglia. Poi nel corso dei secoli questa influenza è rimasta solo in alcune zone, e in particolare in alcuni paesi; gli stessi che negli anni Novanta hanno realizzato che il grico stava scomparendo e che, insieme alla lingua, si stava perdendo anche tutto quel corpus di conoscenze e tradizioni.
Così quei nove comuni ellenofoni, in cui qualcuno ancora parlava (e parla) il grico, hanno deciso di creare un Consorzio della Grecia salentina, con lo scopo di tutelare questo prezioso bagaglio culturale. I paesi inizialmente erano i seguenti: Calimera (in greco “buongiorno”), che è la sede istituzionale; Sternatia, uno dei paesi più belli che ci sia, dove si trovano scritte in grico sparse per le vie (compresa la pasticceria da provare in piazza); Martano, divenuta da qualche anno la città dell’Aloe in particolare grazie a un’azienda che ha iniziato a produrla; Corigliano d’Otranto, la città più filosofica che ci sia in Italia, dove si trova anche il Castello Volante (stupendo!); Soleto, dove è cresciuto Enrico Baldassarre; Zollino, dove preparano la scèblasti, una specialità grica di cui vi parleremo tra poco; Castrignano de’ Greci, dove c’è ancora una macelleria solo equina da visitare; Martignano, il comune più piccolo della Grecia salentina dove si svolge la sagra dell’Insalata Grika e della Salsiccia; e Melpignano, ormai nota a tutti per la Notte della Taranta, di chiara influenza greca. “Il rito del tarantismo è uno dei retaggi più consistenti della cultura greca” continua Enrico. Poi negli anni si sono aggiunti altri tre comuni: Carpignano, Cutrofiano e Sogliano, per un totale di 12 attuali. Oggi il grico è stato riconosciuto come minoranza linguistica dal Parlamento Italiano e questo ha contribuito alla diffusione e al crescere di una nuova consapevolezza sulla sua importanza. Così si è tornati a insegnare il grico a scuola: “ma tale processo di apprendimento è più lento, in quanto mancano gli interlocutori nella vita quotidiana” precisa Enrico.
Che cosa è rimasto del grico?
L’ambito in cui è rimasto più vivo il grico è quello agroalimentare, e a parlarlo sono più soprattutto i più anziani. I loro figli, cioè la generazione di mezzo, non ha avuto molto interesse a impararlo, perché negli anni in cui sono cresciuti (‘70-’90) era considerato qualcosa di minor prestigio rispetto all’italiano. “C’era l’idea (sbagliata) che parlare grico, così come in generale qualsiasi altro dialetto, pregiudicasse l’apprendimento dell’italiano” ci spiega Enrico. “Ma perché non parli in italiano!” si sentiva dire spesso.
Enrico Baldassarre ha preso fin da molto giovane scelte importanti, come quella di apprendere dai nonni e dalle persone anziane il grico. “Io ho imparato a parlarlo con mio nonno, per questo lo ringrazio di avermi trasmesso una lingua così a rischio di estinzione, che ad esempio i miei genitori non conoscono”. Enrico, infatti, è uno di quei pochissimi giovani della sua generazione (ha trentasette anni) che conosce questa lingua anche se oggi, ci racconta, può parlarlo “solo con qualche vecchietto!”. Ma dopo la laurea in Filologia Classica, è riuscito a coniugare perfettamente le sue passioni: la musica, in quanto chitarrista, compositore, concertista e didatta, e le lingue antiche, essendo stato esperto linguista della Grecia Salentina.
Dunque, vediamo quali sono i vocaboli di lingua grica rimasti nell’uso comune, ancora vivi oggi. “Ciò che è rimasto del grico nel parlato è legato all’ambiente della campagna e dell’agricoltura, e descrive lo spaccato di vita dei contadini, da quello che coltivano ai piatti che preparano, soprattutto a base di legumi e verdure, molto diffusi nella nostra cucina”.
Vocabolario grico: le parole utilizzate in cucina della Grecia salentina
Definire una cucina “grica” è praticamente impossibile, poiché oggi si è ormai intrecciata, confusa e contaminata con tutte le altre influenze presenti in Salento. Parlare quindi di una cucina grica vorrebbe dire parlare di quella salentina in generale. Possiamo però farci un’idea di quali sono i piatti probabilmente di origine greca a partire dalla lingua e da alcuni vocaboli in grico rimasti nel linguaggio comune. A questo proposito, Andrea Zacheo, uno dei proprietari del Kuffiari – Bottega dei Sapori di Zollino, di cui ci parleremo meglio tra poco, ci spiega che: “è vero che non esiste una vera e propria cucina grica perché i greci salentini sono stati contaminati, ma non dobbiamo dimenticare che hanno anche influenzato questa magnifica terra, e infatti ci sono tanti piatti e cibi che sono chiaramente di origine grica. Ad esempio, nel nostro forno abbiamo preparato la scorsa settimana la Cialicurda della tradizione popolare salentina, che rientra in quei piatti di cucina povera che si faceva con gli avanzi dei giorni precedenti come verdura bollita, legumi e pane fritto. Questa preparazione esiste anche a Lecce, ma viene chiamata con un altro nome, “muersi fritti”; è difficile stabilire oggi chi abbia contaminato chi. Noi abbiamo dato al nostro forno un nome grico per mantenere vivo questo legame con il passato e nel nostro statuto alla lettera d) abbiamo inserito la promozione, valorizzazione e custodia della cultura enogastronomica del territorio grico, nonché lo sviluppo dell’arte culinaria grica. Questo per far capire che sino a quando qualcuno in quest’area ellenofona farà qualcosa, legandosi al nostro passato, avrà un’identità, e noi vorremmo chiamarla identità grica“.
Mentre andiamo alla ricerca di questa identità grica, ringraziamo sempre Enrico per aver ricostruito per noi le parole griche più utilizzate ancora oggi nella cucina e nell’ambito agricolo della Grecia salentina, che di danno un’idea di ciò che si mangiava un tempo (e si mangia ancora).
Eccone alcune:
- avgà me ti mentàscina: uova con menta selvatica, un piatto molto comune;
- carteddhràte me to mèli: strisce di pasta incartocciate su sé stesse per creare una corona e poi fritte e intrise di miele. Di solito si fanno a Natale (Cristu-Cristùjenna), in quanto rappresentano l’aureola e le fasce che avvolsero il bambin Gesù, ma anche la corona di spine della crocifissione;
- cialàta-cialateddhra: pane d’orzo condito con olio e sale;
- citoniàta: la cotognata, una sorta di confettura di mele cotogne (con meno zucchero), che rappresenta la summa della cucina salentina. Si prepara dopo la raccolta delle mele cotogne, molto diffuse in Puglia, che di solito avviene tra ottobre e dicembre, per poi consumare la cotognata come dolce natalizio;
- cricèddhri: un pane di grano a forma di ciambella;
- cucùzza clorì ce cucùzza cìtrina: zucchina verde e zucchina gialla, preparata spesso lessa con pangrattato, aglio e menta;
- cuddhrùri tu tirìu: forme di caciocavallo, tra i formaggi più comuni;
- cùja: schiacciata fatta coi residui di pasta d’orzo;
- cuturùsci: tarallo grande, simile a una ciambella, tipico di Calimera. Si ottiene a partire dagli avanzi dell’impasto del pane rimasti attaccati alla madia, reimpastati con acqua, olio, sale grosso e pepe e poi cotti di nuovo nel forno a pietra, simile alla Piscialetta di Surbo. In occasione del Solstizio d’estate e di San Luigi Gonzaga si tiene in suo onore la Festa dei Lampioni (stupende lampade artigianali fatte a mano con forme particolari) e de lu Cuturusciu (in dialetto salentino ha la u);
- friculòmmata tianimmena tu psomìu: molliche di panne fritte, utilizzate sopra i peperoni fritti (apanu sta piperia tianimmena);
- friseddhra: una sorta di pane cotto due volte, ma di questa specialità ve ne parleremo molto presto!
- frizzuja: frammenti di pasta fritta (come quelli che trovate su ciceri e tria);
- lampaùna: muscari o lampascioni, antichi bulbi selvatici molto diffusi in Salento, spesso cucinati con cipolle e capperi;
- làvana-lavanèddhre: pasta fresca, di solito lagane;
- lettì: pane d’orzo semplice (anche detto ruàna);
- pipèria pu ceone ce glicèa: peperoni piccanti dolci fatti a “schioppata”, cioè con cipolle, capperi e pomodori;
- pìtta: il pane per eccellenza del Mediterraneo, di cui vi avevamo già parlato, presente in mille varianti diverse in tutti i paesi che affacciano su questo mare;
- reccuddhràcia: sono i porceddhruzzi di cui vi abbiamo già parlato, cioè i dolcetti natalizi, a forma di naso di maiale, da cui il nome, fatti con farina, lievito di birra, vino bianco, acqua, sale, impastati con succo d’arancia, mandarino, limone, cannella, chiodi di garofano e conditi con miele e cannella. Ma senza uova!
- ruvìttia ce trìa: pasta e ceci;
- silicurda-cialicurda: piatto povero di pane e verdura bollite, condite con olio e sale;
- sitàri stompimmèno: chicchi interi di grano pestato, in salentino ranu stompatu;
- ta luvidia me ta sponzaja: baccelli con cipolle porraie;
- ta tianistà: un altro piatto di riciclo, preparato con verdure, pane fritto e legumi, in salentino cecamariti o ‘mpanata;
- to manùri: formaggio molle originario dell’isola di Creta che si ottiene stringendo nella mano gli avanzi del latte cagliato;
- trìddhri: farina (in grico alèvri) di semola mischiata grossolanamente con uova, pecorino, prezzemolo tritato, sale, pepe e infine ricoperta di brodo caldo (nota anche come cucco). Attenzione a non confonderli con i triddi cilentani di Rofrano!
Menù della settimana nella Grecia salentina
Enrico ha ricostruito per noi quello che era – ed è ancora per alcuni – il menù quotidiano, cioè ciò che mangiavano settimanalmente i contadini nella Grecia Salentina, e in generale un po’ in tutto il Salento. Come ha fatto? Gli è bastata ripensare al menù ai piatti con cui è cresciuto insieme a suo nonno.
- Lunedì: si inizia la settimana con legumi (ta calocerinà) cotti in zuccàli (la tipica pentola in terracotta, in salentino “pignata”), quali fave (ta cuccìa), fagioli (ta pasùja – acho), piselli (ta pisèddhria), ceci (ta ruvìttia) o lenticchie (i facì). In accompagnamento verdure (ta làchana) di stagione e miste (ta làchana smimmèna), in salentino “foje mbishe”, come ad esempio “zangune” (smirnio), “sprucino” (asparagi selvatici), “cicoreddhra” (cicorie selvatiche).
- Martedì: è giorno di pasta fatta in casa, di solito con farina e acqua (làgana stromèni me to laganatùri), condita con un sugo semplice (ottenuto da un estratto di pomodori estivi sbollentati e passati al setaccio).
- Mercoledì: si continua con quello che rimane dei giorni passati, cioè di lunedì e martedì, quindi pasta con legumi e verdure miste a seconda degli avanzi (ta minòmata tis dettèra).
- Giovedì: di nuovo pasta fatta in casa ma questa volta abbinate con verdure, sempre stagionali (lavanèddhre me mùgnulu e frizzùja).
- Venerdì: ancora legumi, di solito diversi da quelli del lunedì, a seconda di quello che c’è a disposizione e sempre preparati in zuccàli.
- Sabato: pasta e legumi, anche in questo caso quelli avanzati dal giorno prima.
- Domenica: maccheroni (maccarrunu) o orecchiette al sugo di pomodoro, con mollica di pane duro soffritta in poco olio (friculòmmata tianimmèna) al posto del formaggio che invece si mette oggi. E per chi poteva permetterselo un po’ di carne (crèa), sia nel sugo della pasta che come secondo.
Occasionalmente nell’arco della settimana anche uova e formaggi (avgà ce tirì). Poi c’è una specialità quasi sempre presente che merita un capitolo a parte, poiché si tratta di una preparazione speciale, tipicamente grica, che si trova solo in comune della Grecia salentina: la Scéblasti di Zollino.
La scèblasti di Zollino
La scèblasti di Zollino, in grico xèplasti, è una vera e propria delizia. Si tratta di un pane di forma rotonda, non troppo grande, tipico solo di questo paese della Grecia Salentina, che si fa con lo stesso impasto delle pittule. Al composto di base con farina, lievito e acqua, che è meglio preparare la sera prima, si aggiungono vari ingredienti quali zucca gialla (o zucchine in alcuni casi), olive, cipolla, pomodoro, capperi, olio, origano, sale e peperoncino. Poi si inforna a temperatura alta: di solito si mangiava in attesa che cuocesse il pane. Ma ognuno, come tutte le ricette popolari tradizionali, ha la sua ricetta e lo prepara a modo suo, variando anche le dosi a seconda di gusti e disponibilità. “Per questo è praticamente impossibile avere la ricetta!” ci dice Enrico che andato più volte per noi a Zollino a ricercarla. “Ma son certo che se provate a preparare la scèblasti con questi ingredienti, verrà comunque buonissima”.
Ogni agosto, di solito all’inizio del mese, si tiene la sagra in suo onore, mentre durante tutto l’anno, se non avete la fortuna di conoscere qualche zollinese che vi inviti a casa sua, ci sono solo pochi posti dove trovarla: uno è la storica pasticceria Top Orange, che è stata forse la prima a metterlo in commercio, nota anche per la produzione dei dolci Sibilla (con marchio registrato) e Rachele; poi c’è il panificio Non solo Pane, aperto da anni, che vende anche altri prodotti freschi di gastronomia d’asporto; e infine Kuffiari – Bottega dei Sapori, una novità che hanno inaugurato proprio il giorno in cui eravamo lì, domenica 13 dicembre, regalando squisite scèblasti a tutti i primi clienti. Kuffiari in grico significa “burloni”, perché così venivano chiamati in passato gli zollinesi, nel senso di allegri, spensierati, che stavano spesso sfaticati davanti al camino. Sono stati alcuni giovani a voler ridare vita a questo antico forno del 1800, che i più anziani ancora ricordano i tempi in cui era attivo.
Per quanto la scèblasti così fatta si trovi solo a Zollino, ce ne sono anche altre versioni simili nei paesi vicini. A Sternatia, ad esempio, c’è una pagnotta chiamata to plàmma, che indica appunto un pane “sformato” con pomodoro; deriva infatti dal verbo greco plazo, cioè plasmare, dare forma. Un altro capitolo a parte meritano i festeggiamenti di Pasqua e della Settimana Santa.
Pasca (Pasqua) e la Settimana Santa: alcuni piatti tradizionali della cucina della Grecia Salentina
“Il Salento è un mondo in cui l’arcaico non è stato cancellato dal mito del progresso. E la traccia più forte è proprio il grico, una lingua poetica, che viene da un passato lontano ma ancora presente come un affresco orale che luccica nelle poesie e nei canti, a cominciare da quelli dedicati alla passione di Cristo” scrive il paesologo Franco Arminio in quella meraviglia di libro che è Stiamo scomparendo. Viaggio nell’Italia in minoranza di Ctrl Magazine. Durante la Settimana Santa, infatti, nei paesi della Grecia Salentina, almeno in passato, c’era usanza che li accomunava tutti, ovvero i (articolo femminile in greco classico) Passiuna tù Cristù. Si tratta di una rappresentazione sacra di teatro popolare, che prevede la recita di un canto molto antico, l’ultimo componimento in cantastorie presente in Puglia. Di solito due o tre interlocutori andavano in giro per le masserie recitando queste strofe che raccontavano tutta la vicenda della Crocifissione e della Passione di Cristo. Poi, in cambio, venivano date loro uova o altri generi alimentari e cose da mangiare disponibili in casa.
Passione di Cristo a parte, i piatti diffusi nel periodo pasquale dei paesi delle Grecia salentina sono senza dubbio l’agnello arrosto, in grico arnì ftimèno e la cuddhùra me to avgò. “È una ciambella dolce con l’uovo che viene da kollura (“pagnotta” in greco classico), inserito anche tra i PAT (prodotti agroalimentari tradizionali), che si può trovare anche nella versione salata, la puddhrìca, molto aromatizzata, con uno o più uova sode. A non mancare mai sono anche le còcule, delle polpettine con mollica di pane raffermo e infine l’agnello dolce preparato con la pasta di mandorle, l’arnàci me ta amìddala,
E voi avevate mai sentito parlare della Grecia salentina e della sua cucina?