Riso Venere con Scampi [Racconto]

racconti e cibo

Dalla metamorfosi di Kafka a Moby Dick, la letteratura ha sempre raccontato e trasmesso i valori sociali e culturali del cibo attraverso le sue opere. Per valorizzare e testimoniare questo legame, abbiamo voluto rilegare, in senso metaforico, una serie di racconti legati al cibo, frutto della mano e dell’animo creativo di talentuosi scrittori.

I raccontini saranno pubblicati su Il Giornale del Cibo ogni mercoledì, non perdeteli!

Riso Venere con Scampi

di Giulia Besa

 

Giulio mi scosta i capelli dal collo, sfiorandolo con la punta delle dita. Un gesto delicato, di chi ha paura di rompere un oggetto fragile e prezioso. Le sue labbra morbide mi carezzano la pelle. Chiudo gli occhi e assaporo quella sensazione calda, mescolata al profumo del riso Venere che cuoce in padella.

«Avevi ragione.» Mi volto per sorridergli. «Questo riso ha l’odore del pane tostato. È incredibile!»

Giulio annuisce, e mi stringe a sé. Mi passa le mani intorno ai fianchi, le dita si intrecciano sopra il grembiule, sul mio ventre.

«Se lo avessi cucinato tu,» raccolgo la bottiglia di vino bianco, «non avrei mai indovinato dal profumo che si trattava di riso.»

Una punta di umido sul collo. Una goccia che mi bagna l’incavo della spalla e scivola lungo la pelle seguendo il profilo ossuto della clavicola, fino a scendere nella scollatura della maglietta.

Giulio sta di nuovo piangendo. Ormai capita ogni volta che cuciniamo.

La bottiglia di vino mi scivola tra le dita.

La riacchiappo al volo, prima che si fracassi sul pavimento. Per un pelo. La inclino sulla padella, e sfumo il risotto. Il profumo dell’alcol è una miscela dolce e acre; l’aroma dei chicchi mi stuzzica le narici. Ho già l’acquolina in bocca.

Lancio un’occhiata al fumetto di pesce, che sta sobbollendo nella casseruola. Le teste e le chele rosso-rosa degli scampi fanno capolino dal piccolo mare agitato color ambra. Vapori risalgono dalla superficie e si attorcigliano nell’aria, simili ai tentacoli di un polpo. Il vapore accarezza i nostri visi e mi profuma i capelli. Ora sanno di mare aperto, e della crema ai porri e alle cipolle, che ho preparato ammorbidendo gli ingredienti nel burro.

Sorrido tra me al pensiero delle facce buffe che faceva Giulio poco fa, mentre pulivo gli scampi e i gamberetti. Non sopporta guardarmi aprire il carapace dei crostacei e incidere con la punta affilata del coltello la carne rosata, per pulirli. Ma quando sono così freschi e croccanti che li mangeresti anche crudi, scelgo il più succoso e glielo faccio scivolare tra le labbra insieme alle mie dita che profumano di pesce. E lui, a sentire la polpa morbida che si scioglie sulla lingua, si rasserena e dimentica la sua avversione.

Giulio singhiozza, il suo petto che sobbalza contro la mia schiena. Le mani che tiene intrecciate sul mio ventre si stringono di più.

«Lo sai quanto mi piaceva cucinare con te…»

Sfioro con la mano le sue. «Lo stiamo facendo adesso.»

Le teste degli scampi emergono dal brodo, e gli occhi neri mi fissano. Mi accusano di farlo star male, di far soffrire Giulio. Le chele si aprono e si chiudono, scattano nell’aria e minacciano di incidere il bordo di rame della casseruola.

Distolgo gli occhi e prendo un lungo respiro.

«Lo stiamo facendo» ripeto. «Adesso stiamo cucinando insieme.»

Le dita di Giulio, alla luce fredda dei neon, sembrano le dita di uno scheletro. O forse sono le mie a sembrare le dita di uno scheletro. Non so bene, mi gira la testa. Sbatto le palpebre per schiarirmi la vista, e rimettere a fuoco la cucina.

Prendo il colino e filtro il fumetto di pesce: si è ristretto ed è diventato una crema dorata.

Sono a buon punto con la ricetta di oggi: arancini di riso venere con ripieno di pesce.

Sono sicura che Giulio abbia scelto questa ricetta perché è scenografica. Proprio come le sue illustrazioni, quelle che disegna per le copertine dei romanzi d’avventura, o per gli inserti delle riviste di viaggi.

Una volta fritti, gli arancini diverranno scrigni di riso nero, i chicchi scuri e lucidi simili a gemme incastonate sulla superficie dei bauletti. E al primo morso nel cuore caldo dell’arancino, esploderà in bocca il sapore dolce dei piselli e quello delicato del pesce spada e quello più netto dei crostacei. E si sprigionerà la fragranza dei filetti di triglia saltati in padella.

Mescolo il risotto e aggiungo due mestoli del fumetto al riso. Il brodo di pesce si tinge subito di scuro, e il risotto riacquista il suo color prugna. I chicchi di riso Venere sono cremosi come cioccolato fondente, invitanti e profumati. Sono così buoni che mi brontola lo stomaco!

So che è troppo presto, ma non resisto. Ne raccolgo un po’ sulla punta del mestolo e lo porto alla bocca. Assaggio il risotto: al nocciolo i chicchi sono ancora duri e croccano tra i denti. E poi c’è da aggiungere un altro pizzico di sale, ma sono quasi perfetti.

Mi passo il mestolo sulle labbra, sporcandole apposta di nero. Mi volto verso Giulio e faccio la boccuccia. «Non lo dai un bacio alla tua Venere?»

Lui mi guarda, rimanendo in silenzio. Ha gli occhi gonfi, arrossati. Le lacrime gli imperlano la barba sfatta e gocciolano sul colletto della camicia. È quella che gli ho regalato io l’estate scorsa. È tutta spiegazzata, e sporca. Da quando me ne sono andata di casa, lui non fa più neppure il bucato.

Ho una stretta al cuore. La padella in cui cuoce il riso Venere si incrina. La crepa si allarga e spacca la padella. Il riso cola fuori dallo squarcio. I chicchi si rovesciano sui fornelli, scivolano sul piano cottura, e piovono ai miei piedi.

«Non fare così, amore» mormoro. Sollevo la mano e carezzo la guancia di Giulio, bagnandomi il palmo di lacrime. «Non rovinare tutto, ti prego. Non ho le forze per consolarti.»

Ed è vero. Non riesco neanche più a stare in piedi. Ho le gambe che tremolano come quando sto per avere uno dei miei mancamenti. Mi devo sedere.

«Sto per svenire» dico.

Sposto la mano dietro di me e afferro lo schienale di plastica della sedia. Giulio mi aiuta ad attirarla a me, e mi ci lascio cadere. Appoggio i gomiti sul tavolino di metallo della sala ricevimenti, e mi tengo la testa tra le mani.

Il profumo dei gamberetti saltati, e quello del riso Venere sono svaniti in un lampo, sostituiti dall’odore asettico del sapone per pavimenti e del disinfettante che le infermiere della clinica utilizzano prima di infilare gli aghi per le flebo. Il rosa e il rosso acceso degli scampi e delle triglie che avevo sfilettato per il fumetto sono svaniti, ed è svanito il color prugna del risotto. Sapori e colori che non sono mai esistiti, se non nella mia fantasia. Nella realtà esiste solo il verde uniforme del tavolo. Un verde sbiadito, che mi ricorda le verdure al vapore che cercano di propinarmi ogni pasto.

Perché quelle le potrei mangiare. Quelle non hanno molte calorie. Come se non sapessi che le riempiono di formaggio. Per fregarmi.

Giulio mi scosta i capelli dal collo, i pochi capelli che mi sono rimasti. Mi sfiora le ossa della spina dorsale, sporgenti come le scaglie di un crostaceo. Anche se viene qui tutti i giorni a baciarmi sul collo e a far finta di amarmi ancora, ormai devo sembrargli orribile. Orribile come gli scampi che evisceravo. Faccio un singhiozzo secco. Non ho energie per piangere.

«Scusami.» Giulio si asciuga le lacrime sotto gli occhi con il polsino unto della camicia. «Non avrei dovuto lasciarmi andare. Scusami. Puoi perdonarmi?»

Accenno di sì con il capo. «Va tutto bene.»

«Oggi non ci riesco a fare finta.» Giulio mi dà le spalle. «Magari possiamo cucinare insieme un’altra volta. Domani?»

Prendo un respiro tremulo. «Arrosto alla panna?»

Intuisco dal movimento della sua nuca che annuisce. Ma non si volta più a guardarmi.

Lo osservo mentre esce dalla porta della sala ricevimenti. Mi sfioro il braccio, dove c’è il cerotto con l’ago per le flebo. Oggi farò la brava, non lotterò con le infermiere per evitare la cura ricostituente. E magari più tardi riuscirò persino a mangiare una mela.

Chissà se Giulio si rende conto del bene che mi fa a cucinare ogni giorno con lui. Mi fa bene perché mi dà speranza. Un giorno ricomincerò a mangiare. E potremo di nuovo metterci ai fornelli insieme.

 

giulia besaMi chiamo Giulia Besa, sono nata a Roma nel 1990. Il mio ultimo romanzo IL CATTIVO RAGAZZO CHE VOGLIO è stato pubblicato da GIUNTI. Mentre ho pubblicato il mio primo romanzo, “Numero sconosciuto”, per Einaudi Stile Libero nel 2011; alla fine del 2011 sono stata selezionata per partecipare con il mio racconto “Bancomat” al Torneo Letterario “Esordire” organizzato dalla Scuola Holden; nel 2012 due miei racconti sono stati pubblicati sul sito Storiebrevi.it di Repubblica e l’Espresso: “Il senso di Kitty per il tonno” e “Kitty e l’Ordine della Pernice”. Entrambi hanno vinto per tre mesi il premio di racconti più letti e più apprezzati dal pubblico e sono stati scelti per essere inseriti rispettivamente nelle antologie “Cinque storie sull’allegria” e “Sei storie fantastiche” uscite nel 2013 sempre per Storiebrevi; nel novembre del 2013 esce il mio racconto “Miao!” all’interno dell’antologia “Horror Lovers” pubblicata da Cordero Editore.

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