Homo Famelicus versus Homo Dieteticus

Nutrire Il Futuro

Un po’ come nel gioco dell’enigmistica “unisci i puntini e scopri l’immagine”, il ciclo di seminari organizzato da CIR Food, ci sta conducendo in un percorso di scoperta della cultura del cibo, nella sua accezione più ampia. E’ iniziato tutto con la tavola rotonda sugli appalti pubblici, poi sulla ristorazione per chi viaggia, passando attraverso il connubio arte e cibo, sulla ristorazione ospedaliera, fino alle nuove prospettive per il welfare aziendale e infine su cibo e legalità.

 

 

Il disegno comincia pian piano a delinearsi e la punta della nostra matita, il 17 Settembre, si è soffermata alla CIR VIP Lounge in Expo, sull’incontro “Nutrire il Futuro – Stili di Vita Alimentari e Contenuti Nutrizionali”. Moderato dal noto giornalista televisivo Luca Telese, il seminario ha dato voce a una “filiera” di esperti, che ha permesso di sviscerare il tema in tutte le sue possibili connessioni: antropologiche, sociologiche e culturali.

 

 

I numeri che “non tornano”

Andrea Segrè – Professore Accademico, Agronomo ed Economista – apre l’incontro parlando di numeri, rapporti e proporzioni, che sono lo specchio drammatico del nostro pianeta.

Nel 2015 le stime parlano di circa 10 miliardi di persone che avranno diritto al cibo buono, sano, nutriente, sufficiente. Oggi, invece, circa 863 milioni di esseri umani – sostiene la FAO – soffre la fame. Ma più del doppio, e quindi circa 2 miliardi di persone, è in sovrappeso, con una quota rilevante di obesi.
E se la FAO invita ad incrementare la produzione agricola, è opportuno porre l’attenzione anche sui concetti di sostenibilità ambientale.

Seminari come questi, che parlano di stili di vita, consumi alimentari e contenuti nutrizionali, sono fondamentali perché hanno una visione strategica – dichiara Segrè: la Dieta Mediterranea, in questo senso è, quella con l’applicazione più concreta e ampia, perchè in grado di dare risposta anche in termini di sostenibilità ambientale e sociale.

 

 

La Dieta Mediterranea come “Patrimonio Materiale dell’Umanità”

Di Dieta Mediterranea ce ne parla Elisabetta Moro, antropologa, scrittrice e giornalista che colloca il salto di cultura alimentare, subito dopo la seconda guerra mondiale quando le forti carenze alimentari dell’Europa  portano la FAO a riunirsi in Italia per decidere come sanarle e sfamare il “Vecchio Continente”.

E qui, interviene un fisiologo americano, Ancel Keys, già noto come inventore della razione K dell’esercito americano, che evidenzia come negli USA il problema sia opposto: parla di un’epidemia che nel 1951 determina la morte per infarto del 50% dei maschi trai i 39 e 59 anni. I colleghi partenopei d’altronde affermano che la popolazione italiana non soffre di malattie cardiovascolari.

Inizia così quella fase di ricerca che Keys condurrà per anni in Italia con la moglie Margaret, biologa, e che li porterà a identificare i pilastri  dell’alimentazione mediterranea: frutta, tanti cereali spesso integrali. Ma non solo: pochissimo latte, niente burro, pochissimi formaggi, raramente i dolci, poca carne.

Nel 2010 l’Unesco riconosce la Dieta Mediterranea “Patrimonio Materiale dell’Umanità”: ma non come regime alimentare bensì come stile di vita.
E nel 2015, in Expo, il Centro di Ricerche Sociali sulla Dieta Mediterranea di Napoli – guidato da Elisabetta Moro – presenta una piramide alimentare, che ne indica i 7 comportamenti fondamentali: convivialità, tradizione, cucinare insieme, attività fisica, stagionalità, a scuola, niente sprechi.

È evidente che quello che gli antropologi oggi sostengono è che la cultura del cibo deve essere un sistema integrato di valori e di condivisione. “Solo se vissuto così potrà aprirsi per noi un futuro, se non radioso, almeno splendente” dichiara la Dott.ssa Moro.

 

 

I punti di riflessione di chi fa ricerca nell’ambito della nutrizione clinica

È un Lucio Lucchin ironico quello che apre l’intervento facendo riferimento alla visita recente di Michelle Obama ad Expo, dove la First Lady americana ha molto parlato dei rudimenti della dieta mediterranea e della cultura dell’orto. E ne ha parlato in Italia, dove già nel 1600 ci sono tracce documentali molto chiare sull’utilizzo delle verdure “a sostegno della Salute”; dove già nel 1300 ci sono numerosissimi orti in cui vengono coltivate 50 tipologie differenti di vegetali

“Pare evidente” sostiene Lucchin – Past President dell’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica ADI – “che noi italiani, come al solito, abbiamo perso la nostra dignità culturale

E rileva un dato importante: il 75% dei cibi che noi mettiamo nel piatto è gestito da 10 multinazionali che decidono il cosa, il come e il quando dovremmo mangiare. La Coca Cola o la Barilla, suggeriscono quindi alla popolazione la dieta alimentare studiata e proposta dai loro ricercatori.
C’è evidentemente un confine etico delicatissimo tra industria, scienza e ricerca: è fondamentale che ci sia un rapporto, ma nel senso che l’industria deve sostenere la ricerca, indipendentemente dai suoi interessi di business.

Come nutrizionista, infine, non può fare a meno di ribadire che la funzione primaria del cibo è la nutrizione: la cultura, la biodiversità, la sostenibilità, ecc…sono concetti estremamente importanti ma devono senza dubbio venire dopo l’evidenza che gli aspetti nutrizionali sono fondamentali. “Sapete che il 30% dei ricoverati in strutture ospedaliere in Italia ma anche in Europa risulta essere malnutrito per difetto” chiede? Tutto questo pare paradossale se pensiamo al rapporto alimentazione/iperalimentazione/malnutrizione.

 

 

Noi oggi siamo quello che non mangiamo”: le tribù alimentari

Marino Niola – antropologo, scrittore e giornalista, ci fa un interessante profilo dell’homo dieteticus. E’ l’uomo contemporaneo dell’Occidente Opulento, è il figlio spaventato dell’homo economicus.

L’uomo economicus era quello che pensava di avere davanti a sé il progresso, il futuro: pensava che i suoi figli sarebbero stati meglio di lui (esattamente il contrario di quello che pensiamo noi oggi).
L’uomo dieteticus è quello che investe tutto sul suo corpo: ne fa una specie di capitale, di bene rifugio capitale immunitario.

Noi siamo quello che mangiamo” diceva Feuerbach, ma Niola ritiene invece che oggi “noi siamo quello che non mangiamo”. Se l’Ottocento e il Settecento sono stati i secoli in cui c’era un unica certezza positivistica e cioè che pagando di più si sarebbe potuto mangiare di più, il Novecento è stato il secolo in cui abbiamo avuto l’illusione che pagando di più si sarebbe potuto mangiare meglio. Il secondo millennio è invece il secolo dei dietologi, quello in cui siamo disposti a pagare pur di farci costringere a non mangiare.

Basti pensare alle tribù alimentari, identificabili per “sottrazione” di qualche alimento: vegani, vegetariani, lattofili, lattofobi, fruttariani, crudisti, gluteen free, paleolitici, ecc…

L’homo dieteticus, a seconda della tribù alimentare a cui appartiene, valorizza certi cibi, addirittura li considera oggetto di culto e ne demonizza altri: per cui ci sono oggi gli alimenti salvavita, quelli che ci promettono snellezze, di farci vivere a lungo, di non farci più ammalare, ecc..
Ma ci sono anche gli alimenti che vengono demonizzati: burro, zucchero, sale, ecc.. “In certi casi c’è della ragione – sostiene Niola– ma è sempre questione di proporzione, di quantità”.

Tutto questo porta a un atteggiamento “disfunzionale” verso il cibo, che si manifesta all’acquisto: l’azione compulsiva è quella di scovare e leggere l’etichetta in una maniera quasi ansiosa. L’interesse è verso quello che non c’è piuttosto che quello che c’è: ci interessa oggi di più quello che manca.

“… quell’appetito che avevano i nostri genitori, che qualche volta era esagerato – ammettiamolo pure- era la spia di un rapporto verso la vita. Loro avevano letteralmente fame di vita, noi della vita abbiamo paura.” Dichiara Niola.

 

 

Il ritorno alla tradizione: i segnali della rete

Paola Sucato – blogger e chief editor di WorldRecipes di Expo.ci evidenzia che in Italia c’è la moda del distinguersi attraverso le ricette: chi le fa, chi le cucina, chi le mangia. Ci sono quindi testate molto verticali, blog che parlano soltanto di alcuni stili alimentari che è poi un modo di distinguersi, sia a livello editoriale sia a livello comportamentale. E non ci si vuol far contaminare, almeno sulla carta. Perché poi in realtà ci facciamo influenzare e la cucina della mamma, vince sempre.

Il concetto di mamma è chiaramente simbolico ed esprime il ritorno alla tradizione, alle origini, che è nell’istinto di chi fa l’orto sul balcone, di chi macina in casa i cereali presi al mulino, di chi ricerca e usa il lievito madre ecc… Sono queste tutte tendenze che in qualche modo riportano a una storia familiare contadina.

Curiosamente la tradizione torna, invece che dal passato, dal futuro” fa notare Niola…” è’ la rete a rilanciare comportamenti che apparentemente sono comportamenti arcaici, come le comunità che si scambiano il lievito madre. E’ la community immateriale a ricreare comunità materiale,…”

 

Italia: un paese di Master Chef o Ratatouille?

Quegli chef, che ai tempi di Lutero e Calvino erano considerati “emissari” del diavolo perché corrompevano la “naturalità dei cibi”, oggi sono personaggi mediatici, ammirati e seguiti dalla massa. Fanno moda, fanno tendenza, influenzano.

E’ doveroso però parlare di un’altra categoria di chef: quella rappresentata dai cuochi della ristorazione collettiva, il più grande ristorante italiano. Quelli che ogni giorno preparano i pasti per gli operai, gli impiegati, gli studenti delle scuole, a dei prezzi sempre più bassi. Quelli che oggi dovrebbero essere valorizzati più che mai perché nella cultura del cibo ci sta anche il valore delle persone che ogni giorno, quel cibo, lo mettono in tavola.

 

 

Per leggere gli interventi dei relatori, scarica il pdf e consulta l’abstract del convegno.

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