#Filiera sporca non è una semplice indagine sul caporalato. È anche questo, ma è soprattutto un’analisi approfondita di un settore dell’agricoltura italiana – gli agrumi, e in particolare le arance – fatta in modo da poter scavare sino alle radici e far emergere uno dei più gravi problemi del comparto: le lacune della filiera. Tante e profonde. Perché se i pregiati frutti siciliani vengono pagati oggi a prezzi irrisori, se l’importazione aumenta, se la grande distribuzione organizzata detta le regole e se alla base si scoprono lavoro nero e piccole aziende in crisi la colpa non può essere solo del caporalato.
#Filiera sporca, un progetto al secondo anno di vita, nelle 62 pagine del secondo rapporto – dal titolo “La raccolta dei Rifugiati. Trasparenza di filiera e responsabilità sociale delle aziende”, pubblicato a fine giugno – ne ha fatto quasi un mantra: inutile concentrarsi sul caporalato, si fa il gioco di chi questa filiera vuole inquinarla.
#FilieraSporca: La raccolta della vergogna
Non solo caporalato: il progetto
FilieraSporca, si legge sul sito del progetto, “è nata dall’impulso di tre associazioni diverse tra loro, con la consapevolezza che servisse un approccio integrato al fenomeno”. Si tratta di Terra!Onlus, daSud, Terrelibere (si occupano rispettivamente di problemi dell’ambiente, lotta alla mafia, inchieste su queste e altre tematiche), che nel dar vita a quest’idea sono partite dalla considerazione che l’approccio al problema caporalato è lo stesso di quando, nel ’94, per la prima volta il governo cominciò a occuparsene: vederlo come un’emergenza significa legarlo dal contesto e non comprendere che ormai si tratta di un fenomeno strutturale.
E che lavoro in nero e sottopagato, sfruttamento, condizioni disumane, i legami con la criminalità, il divario tra il prezzo dal produttore a quello finale, il monopolio della gdo (grande distribuzione organizzata) sono facce di una stessa medaglia. Filiera sporca ha dunque ricostruito il percorso dei frutti dai campi della Sicilia e della Calabria agli scaffali dei supermercati: “Le arance rosse dell’Etna – si legge ancora nel portale – esportate in tutto il mondo, il biondo calabrese mischiato col succo brasiliano che finisce nelle lattine delle multinazionali, le clementine di Sibari portate nei banconi di tutta Italia”.
In due anni di vera indagine sul campo ha studiato scandagliato, scoperchiato. E scoperto che “il cuore della filiera è un ceto di intermediari che accumula ricchezza, organizza le raccolte usando i caporali, determina il prezzo. Impoverisce i piccoli produttori e acquista i loro terreni. Causa la povertà dei migranti e nega un’accoglienza dignitosa”.
I numeri
Sono i numeri della crisi del mercato delle arance, che Filiera sporca analizza a fondo: infografiche, grafici e confronti spiegano perché il settore è così debole. Il mercato degli agrumi in Italia (che vede occupate 120 mila persone) assomma al 4% del Pil agricolo, ma vive in questo momento come un incubo il boom dell’import: su tutte Egitto, Marocco e Spagna. Il prezzo delle arance da succo quest’anno è sceso al minimo storico di 7 centesimi al kg, circa il doppio invece quello delle cugine da banco. È chiaro che in questo modo il peso della crisi è sui lavoratori, mentre si assiste a un progressivo abbandono dei campi: in 15 anni in Scilia 30mila ettari di agrumeti sono andati in fumo. Se dunque il 2016 è stato l’annus horribilis degli agrumi siciliani, le cause vanno ricercate in profondità e nel passato, anche recente.
La filiera della schiavitù
Il 2015 è stato per l’Italia l’anno dell’Expo e delle morti nei campi. In pratica, mentre a Milano il Paese aveva una grande occasione per il suo rilancio, qualche centinaio di chilometri a sud il made in Italy si traduceva nelle morti di caldo, sfruttamento e caporalato. In questo contesto nasce l’idea del secondo anno di Filiera sporca, ma non è certo solo dell’Italia questo fenomeno preoccupante e involutivo: tutta l’Europa mediterranea produce in condizioni di grave sfruttamento i prodotti ortofrutticoli destinati in gran parte ai mercati del Nord.
Nella filiera delle arance, spiega il rapporto, convivono il bracciante agricolo sfruttato e la multinazionale, la grande distribuzione e la criminalità organizzata. Ovunque, e la Sicilia non fa eccezione, si verificano le condizioni tipiche di questo regime: uso intensivo di manodopera migrante, ovviamente ricattabile; situazioni abitative vergognose; bassi guadagni, alto numero di ore di lavoro; caporalato. La violenza, in questi contesti, è quasi automatica.
Il caso Mineo
Tutto questo e molto di più c’è nel caso di cui si si occupa Filiera sporca: i richiedenti asilo del Cara di Mineo, nel Catanese, ogni mattina vanno a raccogliere arance. In nero, ovviamente, perché non sono in possesso del permesso provvisorio di lavoro. Fanno otto ore per una cifra che non supera i 3 euro all’ora, e lo fanno perché nel centro, che è oggi uno dei più grandi d’Europa, non passano soldi. Senza controllo, senza dignità. Venticinque euro al giorno possono essere un piccolo tesoro per chi non ha nulla, e qui, tra questi senegalesi, ivoriani, nigeriani si tratta di un destino comune.
Ai produttori, che a Filiera sporca non è riuscito di capire chi sia, questa manodopera ovviamente conviene: è in pratica a costo zero. Da qui, alle pendici dell’Etna, arrivano ormai quasi solo arance scartate dalla distribuzione e destinate ad essere trasformate in succo. Pagate la miseria di 7 centesimi al chilo. La filiera è già abbondantemente corrotta, prima ancora che gli agrumi partano verso il loro lungo viaggio.
Fonte immagine: filierasporca.org
La grande distribuzione organizzata
#FilieraSporca è andata oltre nella sua analisi, obiettivo le falle che la gdo a suo avviso crea nel circuito. È stato dunque inviato un questionario sulla trasparenza di filiera a 10 gruppi presenti in Italia: Coop, Conad, Carrefour, Auchan-Sma, Crai, Esselunga, Pam Panorama, Sisa Spa, Despar, Gruppo Vegè e Lidl. Le risposte sono arrivate solo da Coop (la più virtuosa a leggere le risposte), Pam Panorama, Auchan-Sma e Esselunga, mentre Conad ha spiegato di “non essere molto interessata a questo tipo di operazioni”, salvo poi correggere il tiro a rapporto ormai in stampa.
Le proposte
Il rapporto ne ha sfornato diverse, legate a tre ritenute essenziali se si vuole risolvere il problema:
- Etichetta narrante, che aiuti il consumatore ad una scelta consapevole.
- Elenco dei fornitori, da rendere pubblico e consultabile nell’ottica della trasparenza della filiera.
- Responsabilità in solido delle aziende committenti, in caso di reato, e dunque imprese e caporali sullo stesso piano.
Tra le altre proposte, che discendono tutte da queste, la creazione dell’albo dei trasformatori agrumicoli e la riforma delle organizzazioni di produttori, che potrebbero assolvere una funzione di controllo e ridare ossigeno ai piccoli produttori e invece sono, perlomeno in Sicilia, uno dei buchi della filiera: tante e con pochi iscritti in confronto, ad esempio, a Trentino ed Emilia Romagna, non riescono ad essere interlocutori privilegiati sul mercato. Quanto alle misure penali, il ddl 2217 appena approvato dal Senato fornisce le prime importanti risposte.
#Filiera sporca è dunque un allarme ben argomentato, e non semplicemente circoscritto alla Sicilia o, al massimo, alla Calabria, ma diffuso su scala nazionale. Ne avevamo parlato, con tutti i numeri dell’annus horribilis delle arance e degli agrumi italiani in genere, quando qualche mese fa venne lanciato un sos per la spremuta made in Italy. Per il caporalato, invece, quella di Mineo è una delle situazioni limite, al pari di quella degli indiani Sikh che lavorano nell’agro pontino, di cui vi abbiamo già parlato.