Trasparenza e tutela dei consumatori, questi sono i principi cardine del nuovo decreto interministeriale, pubblicato il 27 febbraio sulla Gazzetta Ufficiale, che introduce delle importanti novità a proposito delle etichette di pomodoro. Dopo aver reso obbligatoria l’indicazione dell’origine sulle confezioni di latte e derivati, la pasta e il riso, infatti, è il turno di sughi e salse che contengano almeno il 50% di pomodoro.
Un passo avanti significativo che consentirà ai consumatori di riconoscere subito la provenienza di ciò che sta acquistando; una novità particolarmente importante alla luce di alcune recenti inchieste che sollevano dubbi sull’autentica “italianità” del concentrato utilizzato per i prodotti industriali.
Etichette di pomodoro e derivati: cosa cambia?
Con l’attuazione di questo decreto prenderà avvio un periodo di sperimentazione di due anni durante il quale l’etichetta apposta su pomodori, sughi e salse che siano composte almeno per il 50% da derivati del pomodoro dovrà rispettare regole molto specifiche. In particolare, ciascuna etichetta dovrà indicare:
- il paese di coltivazione del pomodoro;
- il paese in cui viene trasformato e trattato.
Se l’intera filiera produttiva ha sede all’interno dell’Unione Europea, sarà possibile trovare l’indicazione “Paese UE”. In casi ibridi, troveremo “Paesi UE E NON UE”, mentre l’etichetta “Paesi NON UE” indicherà i pomodori prodotti interamente fuori dai 28. È prevista, poi, una dicitura specifica nel caso in cui il prodotto sia completamente made in Italy: “Origine del prodotto: Italia”.
Per rispettare la legge, l’etichetta dev’essere, inoltre, posizionata in maniera che sia facilmente visibile e, come specifica il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, “riconoscibile, chiaramente leggibile ed indelebile”.
Un servizio ai cittadini
Le nuove etichette del pomodoro rispondono ad un’esigenza concreta molto sentita dai cittadini italiani: ben l’82%, infatti, considera importante conoscere l’origine degli alimenti e degli ingredienti che utilizza in cucina. Una sensibilità che si fa ancor più urgente quando si parla di cibi come il pomodoro, ma anche la pasta appunto, che fanno parte della tradizione della dieta mediterranea,.
Secondo quanto dichiarato dal Ministro Maurizio Martina, inoltre “le nuove etichette aiuteranno a rafforzare i rapporti di fiducia tra chi produce e chi trasforma, tutelando non solo i nostri prodotti, ma anche il lavoro delle nostre aziende e i consumatori.” L’industria del pomodoro, infatti, ha un fatturato di circa 1,6 miliardi in euro di sole esportazioni, secondo quanto rilevato dall’Associazione Nazionale Industriali Conserve Alimentari Vegetali (dati 2016): un valore che colloca il nostro paese tra i maggiori esportatori di pomodoro e derivati al mondo. I dati elaborati da Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare, stimano in 3 miliardi di Euro il giro d’affari generato dall’industria del pomodoro e dei derivati nel solo 2017.
Un’eccellenza del made in Italy e una filiera assolutamente strategica, che dovrebbe, almeno in teoria, garantire prima di tutto ai cittadini italiani l’opportunità di portare in tavola un prodotto di assoluta qualità. E se Martina insiste dicendo che “i cittadini hanno il diritto di conoscere con chiarezza l’origine delle materie prime degli alimenti che finiscono sulle loro tavole”, una recente inchiesta di Jean-Baptiste Malet, pubblicata in italiano con il titolo “Rosso marcio” ed edita da Piemme sembra mettere in luce alcune gravi contraddizioni che gettano delle ombre sull’autenticità del “pomodoro italiano”.
“Rosso marcio”: etichetta italiana, pomodoro cinese
Incuriosito dalla presenza di grandi fusti blu contenenti concentrato di pomodoro etichettati come “made in China” in Provenza, il giornalista d’inchiesta francese Jean-Baptiste Malet ha dato avvio ad un’indagine approfondita per ricostruire il viaggio dal campo alla tavola di tonnellate di concentrato di pomodoro. Una storia che intreccia l’Estremo Oriente, i porti del Sud Italia, in particolare Salerno e Napoli, e il mercato mondiale di ketchup, concentrato di pomodoro, pizze surgelate e tutti quei prodotti che hanno “l’oro rosso” tra gli ingredienti.
Come spiega Malet, intervistato dalla rivista il Salvagente che ha svolto una parallela indagine sull’argomento, “gli italiani hanno esportato la loro conoscenza in materia di pomodoro e di macchinari in Cina dove ora ci sono gli impianti di produzione e lavorazione del pomodoro più grandi del mondo. I cinesi hanno ripagato questo lavoro con barili di concentrato, spediti a Napoli.” Ogni anno, infatti, vengono importate 200mila tonnellate di triplo concentrato di pomodori, delle quali circa metà provengono dalla Cina, 55mila dagli Stati Uniti, soprattutto dalla California, e poi a seguire Spagna, Portogallo, Egitto e Grecia. Il triplo concentrato viene lavorato in Italia, trasformato e confezionato in pochi giorni, dunque, e poi viene rivenduto all’estero come prodotto italiano.
È vero che in Italia il concentrato di pomodoro non gode di particolare fortuna, dal momento che si preferisce la passata di pomodoro, i pelati e i ciliegini, tuttavia il rischio di portare in tavola del pomodoro cinese con etichetta tricolore c’è, secondo Malet, ogni volta che si mangia ketchup, prodotti industriali, pizze surgelate, legumi in salsa di pomodoro, per fare solo alcuni esempi. Giovanni De Angelis, direttore di Anicav, interpellato sempre da il Salvagente, non ha dubbi: “pomodori pelati, pomodorini, passata e polpa sono 100% italiani, devono essere prodotti da pomodoro fresco lavorato in 24/36 ore. Trasformare prodotto fresco straniero sarebbe antieconomico.”
Indicare l’origine in etichetta è l’unica soluzione
Esperti, agricoltori, giornalisti, tuttavia, sono concordi nella possibilità di una soluzione per fare quantomeno chiarezza su quanto gli italiani portano in tavola: l’origine del prodotto in etichetta. In questo senso il decreto interministeriale per le etichette di pomodoro, prima norma del genere in Europa, è stata accolta con favore e soddisfazione dai produttori che auspicano una effettiva tutela del “made in Italy” da speculazioni e dubbi.
La sperimentazione italiana che, per l’appunto, parte in questi mesi e andrà avanti fino al 2020 potrebbe, però, dover cedere il passo ad una normativa europea che ha l’obiettivo di garantire trasparenza e sicurezza al consumatore: infatti, decadrà in caso di piena attuazione del regolamento UE n.1169/2011 che disciplina i casi in cui è necessario indicare il paese d’origine o il luogo di provenienza dell’ingrediente primario impiegato per preparare un alimento.
Sebbene la Commissione Europea non abbia ancora emanato atti di esecuzione in tal senso, nel mese di gennaio ha avviato la procedura di consultazione pubblica per elaborare una modalità comune di indicazione dell’origine sui prodotto, azione che rappresenta il preludio ad una presa effettiva di posizione che armonizzerà l’etichettatura degli alimenti a livello europeo. L’Italia, da questo punto di vista, vorrebbe rappresentare un modello da seguire, anche per tutelare il proprio patrimonio enogastronomico.
Ancora non sono presenti, invece, le etichette a semaforo utilizzate in Francia e Gran Bretagna. Voi cosa ne pensate?