Vale per il Prosciutto di Norcia, lo Zampone di Modena, la Mortadella di Bologna, la Coppa di Parma e per tutte le 13 produzioni Igp nostrane, ricavate dalle carni di sua maestà il suino: la coscia deve avere specifiche caratteristiche, rispettare zone di produzione e modalità di lavorazione. Ma che l’animale debba essere “italico” (ne ha parlato anche il Corriere alcuni mesi fa) non è scritto da nessuna parte, anzi: fino ad Aprile, quando è entrata in vigore la nuova legge sull’etichettatura delle carni, i nostri virtuosissimi prosciutti non erano obbligati a riportare nessuna indicazione sull’origine delle carni.
Ma ora che la trasparenza sulla nazionalità del suino è scesa sulle nostre tavole resta una domanda: perché le aziende italiane sono così esterofile?
Lo abbiamo chiesto ad una di loro e la risposta ci ha sorpreso: del maiale italiano, anche loro, non vorrebbero buttare via niente. Se non fosse che gli italiani mangiano ed esportano più carne di suino, di quanta non riesca a produrne. Allevare maiali, insomma, non è proprio il nostro forte…
I numeri del suino in Italia: consumo ed esportazione
Stando ai numeri dell’Anas (Associazione Nazionale Allevatori Suini) che, a sua volta, elabora i dati Instat, nel 2014 l’Italia ha importato 62 milioni di cosce suine: l’8,5% in più rispetto all’anno precedente. D’altro canto, nello stesso anno è aumentato anche il volume di esportazioni dei prosciutti lavorati, con il crudo in prima linea, il cui export è cresciuto dell’11% e il cotto del 4,3%.
Entrando nel merito delle proporzioni tra i suini italici e stranieri, sembrerebbe che questa ‘torta grassa’ sia equamente divisa in 2 parti: metà nostrana, metà pescata fuori dai confini nazionali. Immaginiamo a questo punto di estrapolare da questa metà made in Italy un buon 70% (questi, almeno, sono i numeri che si registravano nel 2012), ovvero la quantità di suini italiani che, per forza di cose, hanno come destinazione i prodotti Dop, i cui maiali devono necessariamente essere nati e cresciuti qui. Risultato: alle altre aziende che lavorano il maiale, non resta che mettersi nelle mani delle porcilaie estere.
Vogliamo il suino italiano
Sono dati che non fanno esultare i consumatori, ma nemmeno le aziende italiane, molte delle quali, il suino italiano lo vorrebbero eccome. È quello che ci dice il signor Pier Luigi Montorsi, titolare di Sami S.r.l., azienda che commercia una propria gamma di prodotti suini a marchio “Il Maialino”, che comprende varie tipologie di prodotti: dagli stagionati ai prodotti di carne fresca quali “L’Arrostichetto” e le “Anime di Prosciutto”.
“Il nostro gruppo importa circa 50.000 cosce a settimana per il 90% tedesche ed il resto di provenienza europea. Siamo alla ricerca di suini di nazionalità ITALIANA di qualità da chilogrammi 120-125 che ad oggi non ci sono. Se ci fossero i suini italiani saremmo noi i primi a smettere ad importarli dall’estero. Pensate quanti posti potremmo creare, se potessimo allevare 30.000.000 di suini in Italia! Quanto denaro risparmieremmo?”, osserva il signor Montorsi, che continua: “per questo motivo siamo già in contatto con allevatori del nostro territorio, con i quali creeremo un’associazione per produrre il suino leggero italiano”.
Suino leggero. Perché a questo punto dobbiamo fare un’ulteriore specifica. Se reperire carne di maiale italiana è difficile, trovare suino leggero (che venga macellato quando raggiunge ql massimo i 100-110 kg di peso vivo), è ancora più difficile: la suinicoltura italiana è inaffati spiccatamente votata a quello pesante.
Chi, come il signor Montorsi, ha scelto la “via della leggerezza” non ha altra alternativa che l’importazione.
Perché leggero e non pesante?
A questo punto ci chiediamo quale differenza ci sia tra le due tipologie e per quale ragione alcune aziende italiane vanno in cerca del suino leggero.
“Si tratta di due linee nettamente distinte” risponde il Signor Montorsi. “ Il maiale pesante (da kg. 160-180) viene prevalentemente utilizzato per i prodotti DOP stagionati, mentre quello da 120 kg viene destinato ai prodotti da macelleria e gastronomia: è più tenero ed ha meno grassi all’interno della carne stessa, quindi può essere consumato dalla coscia alla testa fresco.
Prendiamo ad esempio per il nostro ‘Arrostichetto’: la sua tenerezza è data dal grasso tenerissimo che circonda il muscolo della coscia, un grasso che io chiamo ‘strutto vergine’, che si scioglie al momento della cottura e dà morbidezza e sapore a tutto il prodotto. Lo stesso possiamo dire per le nostre ‘Anime di Prosciutto’ che, per la loro tenerezza vengono consigliate anche a bambini e anziani.
Infine, dall’allevamento di suino leggero trarrebbero molto vantaggio gli stessi allevatori, i quali invece di allevarli fino a 12 mesi, potrebbero farlo solo fino a 5 e mezzo/6”.
Qual è la soluzione?
Il signor Sami ha le idee chiare: appoggiare e promuovere la presenza di allevamenti di suino leggero, in porcilaie sostenibili.
“Per allevare maiali nel modo corretto si dovrebbero innanzitutto rifare le porcilaie”, osserva, “per poter garantire il benessere all’animale. Perché ricordiamoci che se l’animale sta bene, la carne è automaticamente più buona e sana”.
Porcilaie progettate in modo tale da rispettare gli standard della sostenibilità ambientale: “Abbiamo pensato ad un impianto che permetterebbe di recuperare tutti i sottoprodotti animali, compresi i fanghi, e di produrre Biogas a partire dalle feci”.
Il progetto sembra essere ormai più che concreto: nata dall’idea di un gruppo di allevatori modenesi, l’associazione di allevatori di suino leggero verrà costituita entro Settembre. Tra i suoi intenti, c’è anche quello di intercettare fondi europei destinati all’agricoltura ed utilizzarli per la costruzione di impianti che permettano il riutilizzo di feci e scarti animali, per riuscire ad allevare maiali con un impatto ambientale nullo.
Che sia l’anticamera di un promettente ritorno del suino italiano nelle nostre tavole?